Una delle prime partenze per Lagos. (1979)
Atterro a Zurigo da dove parte il volo Swissair per Lagos. L’orario è sempre quello, come lo spettacolo che mi aspetta al gate d’imbarco.
Nella saletta d'attesa, all'imbarco, di pelle bianca c’è solo la mia e quella di pochi altri, a colpo d’occhio in partenza per affari. I Nigeriani che stanno aspettando come me sono di un nero pece, labbra perlacee e turgide, nasi larghi e narici aperte, fronte ampia, sguardo oltre l’orizzonte. I muscoli delle braccia e della schiena sembrano scolpiti dentro cotoni colorati, le mani grandi, i palmi rosa sotto manti di velluto scurissimo, le lunghe dita inanellate, le unghie chiare molto regolari. Generosi e materni sono i seni delle donne, bellissimi i lineamenti sotto i turbanti colorati.
Qualcuno è sdraiato per terra, accanto a grossi sacchi legati con lo spago, le scarpe abbandonate in mezzo ad altre molto più in là: in quelle piante rosa dei piedi c’è la stessa sensibilità dei polpastrelli felpati dei felini. Chi è in piedi sembra radicato nel pavimento. C’è un silenzio morbido, il silenzio flemmatico dell’attesa africana misto a quello solenne che alita intorno ai grandi chief locali. Scialli di pizzo colorati buttati sulle spalle, sfarzosi gioielli rilucenti ai colli massicci, bracciali al polso e vistosi orologi, grossi anelli alle dita, dorati come i ricami sulle vesti lunghe fino ai piedi, ciabatte lucidissime dalla punta scorticata e sempre troppo corte, una fierezza così densa da poterla respirare. I grandi chief partono così dall’Africa per frequentare scuole americane, tedesche, svizzere, con la tacita promessa di assimilare dall’Occidente solo quanto possa loro servire; e così come dall’Africa partono, in Africa tornano: non è un caso che i vestiti occidentali restino fuori dalle porte dell’aeroporto.
Aprono l’imbarco. L’idea di fare una coda ordinata l’ho abbandonata fin dalla mia seconda partenza per la Nigeria: a questo gate ci si ammassa sospingendosi nell’imbuto del controllo, i boarding pass sono sventolati come bandierine in un corteo di pacifici manifestanti. Sull’aereo mi accoglie la familiare confusione africana, la stessa dei mercati locali nelle ore di punta: mancano le galline, ma sono sicura che qualcuno le avrà nascoste da qualche parte anche stavolta! Riesco a malapena a trovare un posto per la mia borsa: con i nigeriani devi essere velocissimo, perché in un attimo ogni spazio viene occupato.
Atterriamo di notte: l’aeroporto di Lagos è grigio e le luci al neon lo rendono agghiacciante nel caldo umidissimo dell’Equatore. La calura si alza dal terreno entrando dalle piante dei piedi e scende dal soffitto calando dalla testa lungo la schiena: sembra di essere in un forno. I muri sono di un colore indefinibile, tappezzati di incrostazioni grigiastre e di manifesti strappati. Tutti sudano, le camicie dei pochi europei appena atterrati hanno una macchia scura in mezzo alla schiena e due mezzelune sotto le ascelle, che occhieggiano quando un braccio si alza per asciugare la fronte paonazza col fazzoletto. Acqua, ci vorrebbe un po' d’acqua da bere, ma so che qui non si può bere dai rubinetti né dalle bottigliette, che spesso hanno un tappo senza sigillo. Sto tranquilla, accoccolata nella mia flemma ormai africanizzata. E aspetto.
Per entrare in Nigeria si devono attraversare cinque dogane, sempre e comunque: non importa che io sia residente e sposata lì. Richiede tempo e pazienza infiniti. Mi guardo intorno. Anche l’europeo qui si trasforma, delineando due categorie nettissime: quelli che si trovano in questo Paese solo per obbligo e non mascherano la loro non appartenenza né la voglia di ripartire al più presto, e quelli che hanno fatto della Nigeria una tappa calcolata per arraffare il più possibile. Li chiamo “la feccia occidentale” e sono certa che, sbarcata per derubare la Nigeria, finirà prima o poi derubata a sua volta, sempre che non sia destinata a sorte peggiore. Davanti a me un uomo, anglosassone o forse scandinavo: carnagione bianchissima, capelli biondo rossiccio, non un filo di pancia né di sedere, al punto che la cintura pur stretta regge a malapena i pantaloni. Spaesato e teso, l'uomo appartiene senza dubbio alla prima categoria e questa è la sua prima volta: la doganiera che lo sta perquisendo con mani decise sa benissimo che gli potrà spillare qualcosa.
Al mio battesimo con queste dogane non avevo mostrato la mia insicurezza in modo così evidente, ma ricordo benissimo quanto avessi paura. Era l’agosto del 1979. Non ero mai stata in Africa, se escludiamo una toccata e fuga a Tangeri e Casablanca durante una crociera nel Mediterraneo con mia madre. Ero sola e sola avrei dovuto affrontare queste dogane. Conoscevo nei minimi dettagli tutte le procedure perché le avevo sempre dovute spiegare a ogni operaio o dirigente in partenza per la Nigeria, ma ora che toccava a me i racconti terrificanti di chi c'era stato mi riempivano la testa, mandando all'aria le mie certezze. Pensavo a mio padre che, in uno dei nostri rari scambi, mi disse: “Spero tu abbia la fortuna di viaggiare per il mondo, ma che tu non debba mai andare in Nigeria: è l’unico Paese da evitare.” Un suo amico vi era morto di malaria nel 1966 e lì mio padre era stato preso dalle popolazioni indigene e tenuto prigioniero in luoghi putridi, senz’acqua e senza cibo per giorni, in costante compagnia di grosse tarantole. Proprio lì, invece, ero finita nella mia prima missione all’estero.
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